In un momento di difficoltà come quello attuale, in molti si cimentano nell’esercizio di ricercare ricette e soluzioni alla crisi globale. Anche noi di Spazio Impresa proviamo a dire la nostra, sfruttando il nostro punto di osservazione privilegiato ed indipendente, che ci permette di analizzare la complessità delle realtà aziendali italiane, piccole e grandi, con oggettività, senza pregiudizi o condizionamenti, ascoltando e vivendo direttamente gli errori e le difficoltà del sistema imprenditoriale italiano.

IL PUNTO DI PARTENZA – ma da dove nasce questa crisi? Come direbbe qualche letterato un po’ retrò, su questo argomento sono stati “spesi fiumi di inchiostro”. Al di là di tecnicismi e semplificazioni che fanno partire il tutto dalla “bolla speculativa immobiliare”,“dai titoli tossici” o “dai muti subprime” il tutto è nato da un atteggiamento psicologico che ha cavalcato, con ritmi via via crescenti, gli ultimi 40 anni della nostra storia: l’avidità.
Se riteniamo che tutto sia nato dal comportamento di pochi manager corrotti, non facciamo che sottovalutare il fenomeno creandoci un finto alibi. Il fenomeno è più ampio; il denaro è diventato, in un tempo relativamente breve l’unico, totale padrone delle scelte di vita e delle valutazioni personali. Non solo il motore dell’economia, come è giusto che sia, ma qualcosa di più totalizzante, il dominus della vita sociale. In una crescente escalation, il denaro, il possesso, la “robba”, non rappresentano più il frutto del proprio lavoro, ma il valore di riferimento per un’intera società, il modo per dimostrare la propria esistenza e il proprio status.

Questo percorso, inizialmente virtuoso, legato al lavoro e ai sacrifici (parliamo de ventennio dal 1970 al 1990), nel tempo e con le generazioni successive, cresciute in un contesto sociale più protetto e “coccolato” è degenerato sino a produrre l’idea che si possa fare “soldi facilmente” senza avere talento, capacità, abnegazione o più semplicemente senza lavorare. Il risultato? Una classe dirigente che ha ritenuto equo avere un rapporto economico tra il primo e l’ultimo rappresentante di un’organizzazione, sia essa un’azienda, una squadra di calcio o un ente pubblico di 1 a 100 a 500 o ancora di più, mascherando questo modello sociale dietro la parola “meritocrazia".
Dare merito, forse è il caso di metterlo bene in chiaro, non porta necessariamente come effetto collaterale creare delle disuguaglianze.

L’AGGRAVANTE ITALIANA – sin qui le argomentazioni evidenziate sono “globali”. Questa corsa smodata all’arricchimento senza fatica ha investito tutte le economie moderne con ritmi più o meno forti, ed anzi, per utilizzare un’argomentazione dell’attuale maggioranza di governo, in Italia ha inciso meno, forse perché la cultura agricola, provinciale e risparmiatrice del popolo italiano ha limitato questa forma di avidità dilagante. Se, però, vogliamo avere un approccio credibile a quello che sta accadendo, dobbiamo anche guardare l’altra faccia della medaglia, quella più oscura che per il sistema “Italia” è rappresentato da un pesante fardello che spesso si fa finta di non conoscere o, ancor peggio, si ignora per ragioni opportunistiche. Anche in questo caso parliamo di un modello comportamentale, che sta alla base di una serie di azioni concrete: la furbizia.
Sino a quando in Italia continueremo a ignorare, tollerare o incentivare, in modo velato o palese, la scaltrezza, la destrezza, o potremmo usare mille altri sinonimi come soluzione inevitabile, o, ancor peggio, come punto di forza di un sistema-paese, non usciremo da una posizione che ci pone, spesso, come fanalino di coda nelle classifiche economiche internazionali. Il fattore “F” (dove F sta per furbizia) diventa una sorta di moltiplicatore delle disuguaglianze che livella verso il basso la qualità della nostra produzione, intelletuale o reale, nella speranza che il fattore F ci aiuti in qualche modo a “piazzarli” sul mercato.

LA SOLUZIONE – la strada per migliorare, non necessariamente per risolvere, sta in una parola: equità. Un termine che deve appartenere a tutti e non solo agli altri, deve riguardare i politici, ma anche i manager, i commercianti e i liberi professionisti , gli imprenditori e i giornalisti passando per artigiani e star della TV. Sino a quando il politico prenderà 100 volte lo stipendio del suo portaborse, il manager 500 volte quello di un impiegato, l’imprenditore 1.000 volte quanto guadagna un suo operaio, non usciremo da questa deriva. Purtroppo, nel nostro immaginario questo comportamento riguarda solo gli altri, le caste, i banchieri, i manager, i calciatori; ognuno scarica su altri la responsabilità di dare inizio ad un comportamento virtuoso. Personalmente non credo che ci sia la possibilità di imporre a nessuno comportamenti eticamente corretti, questi devono nascere da motivazioni più profonde, ed un periodo di crisi come quello attuale, può rappresentare l’opportunità per rivedere dalle fondamenta il modo di comportarsi, di vivere, di spiegare ai nostri figli che i soldi sono un mezzo e non il fine, che la furbizia rappresenta un comportamento sbagliato per se stessi e per gli altri.
Se ognuno di noi, nel suo piccolo, riuscirà a cogliere l’opportunità per migliorare i suoi comportamenti, ridimensionando in primis la propria retribuzione o ancora meglio incrementando quella dei propri dipendenti e collaboratori senza chiedere alla politica, alle banche o a qualche entità esterna di avviare questa piccola rivoluzione, usciremo da questa crisi più solidi sia economicamente che eticamente. Qualcuno ci seguirà…

articolo a cura di Massimiliano Masi (m.masi@made.eu)