Fino a circa vent’anni fa, esistevano molte grandi aziende nazionali e tanti lavoratori con contratto a tempo indeterminato. Un rapporto di lunga durata, non sempre disteso, che i dipendenti vivevano con grande coinvolgimento personale.

I lavoratori trascorrevano la maggior parte del loro tempo lavorativo e l’azienda, dal canto suo, forniva una serie di benefits aggiuntivi (es. riduzioni sui servizi erogati al personale dipendente, organizzazione di attività extralavorative mensa aziendale, circoli del dopolavoro, ecc.). Si trattava di una strategia aggregante che creava coesione interna e alimentava un forte senso di appartenenza ad un mondo, quello aziendale, di cui si condividevano valori e obiettivi, investendo anche gli ambiti privati.

Frequenti erano i casi in cui le mogli dei dipendenti si frequentavano e rispettivi figli crescevano insieme. Oggi questa realtà è profondamente mutata. Le aziende, soprattutto quelle di più grandi dimensioni, sono spesso frutto di alleanze, joint venture o processi di acquisizione. In questo contesto scosso da continui cambiamenti e numerose incertezze, sta crescendo l’infedeltà delle risorse umane. Un fenomeno preoccupante, visto che investe soprattutto il top management. A spiegare il trend in atto, interviene Maury Peiperl, esperto di career management e docente di leadership e strategic change all’IMD, la business school di Losanna. “Come aspettarsi – chiede il docente – da un manager un comportamento di grande lealtà quando sono le stesse aziende per prime a non poter garantire un futuro certo ai loro dipendenti?”

Per non parlare dell’infedeltà della base lavorativa: un processo che privilegia nuove forme di lavoro, quali part-time, telelavoro, tende sempre più a scollare i dipendenti, a smaterializzarne il lavoro, a far perdere unità in azienda.

Un processo che, come spiega il professore complica la pianificazione delle carriere in azienda. “Viviamo in un periodo di incertezza, i lavori non sono più a vita e i giovani manager di talento non vedono una professione con la stessa prospettiva di un tempo. Interpretano la loro carriera come se fosse un investimento finanziario: appena il rendimento cala, si cambia. L’ultima generazione di executive è cresciuta in un mondo senza frontiere, con media globali come Internet, in cui la conoscenza è aperta a tutti e le radici tendono sempre più a venir meno.”

Chi gestisce o ha un incarico dirigenziale nell’area delle Risorse Umane deve fare i conti con una serie di problematiche nuove: meglio retribuire personale in trasferta o reperire nuove risorse in loco? Come fare recruiting di executive di talento?

“Il primo criterio di scelta – secondo il professore – è una verifica del grado di apertura mentale dell’aspirante manager. Per valutare la disponibilità a vivere in un contesto internazionale è utile selezionare persone che abbiamo svolto studi all’estero e che presentino nel proprio curriculum elementi da cui si evinca un approccio multiculturale a 360°.”

La conoscenza di una o più lingue straniere, da sole, non bastano. E’ più indicativo se sono state vissute esperienze di studio e, più in generale, di vita all’estero, partecipando ai programmi Erasmus, con esperienze di stage o di job fuori dai confini nazionali. Agli studenti che, invece, avessero già le idee chiare, e volessero puntare ad una carriera da top manager, il Professore consiglia di optare per corsi di studi in economia o management, in Ingegneria o in altre materia scientifiche, riservandosi di frequentare anche un master in business administration.