Sembra ancora molto lontano il momento in cui la formazione e le imprese riusciranno a comunicare e a collaborare per far crescere il sistema paese. E’ un’amara constatazione che nasce dalle dichiarazioni rilasciate da molti rappresentanti di multinazionali dopo una giornata in università alla ricerca di nuovi talenti.

Le aziende internazionali che hanno a che fare con i neolaureati italiani sembrano dar ragione a Tommaso Padoa-Schioppa quando definì “bamboccioni” i giovani italiani. Molti candidati ai colloqui di lavoro non conoscono l'inglese, hanno poche idee piuttosto confuse e scarsa capacità propositiva. Lo hanno rivelato tanti dei rappresentati delle 115 imprese che nel "career day" hanno invaso i cortili di una delle più importanti università private, la Luiss di Roma, per contattare possibili reclute. Al di là delle specifiche esigenze, in genere le imprese cercano candidati:
– ancora giovani, ovvero che non abbiano superato la soglia dei 25 (qualche volta 28);
– che abbiano una buona padronanza della lingua inglese;
– si siano laureati con un buon voto (in genere non meno di 100/110).

Inoltre sono ritenuti valori importanti per effettuare una prima scrematura di candidati anche la disponibilità e l’autonomia che garantiscono a potenziali datori di lavoro. Rispetto a queste esigenze, per altro non difficili da intuire, gli studenti non offrono risposte adeguate, almeno a sentire coloro che si occupano di recuiting.

"I neolaureati assicurano di averne una buona conoscenza, ma spesso non è così", commenta Pierfrancesco Matarazzo, responsabile Risorse Umane per Dexia Crediop. Una lacuna evidenziata anche dalla Microsoft: "la lingua è un vero problema, a tutti i livelli: lo scorso anno cercavamo 40 figure di alto profilo e non siamo riusciti ad assumere nemmeno un italiano, il livello tecnico in diversi casi era eccellente, ma l'inglese un disastro" dice Els Van de Water, senior manager Risorse Umane della multinazionale.

Oltre a non garantire un "fluent english", i giovani italiani vengono definiti come poveri di idee ed autonomia. Basti pensare a come spesso si presentano: "invece di dirci loro cosa sanno fare o cosa vorrebbero fare ci chiedono: voi cosa offrite?" notano alla Microsoft. Anche l’autonomia nei curriculum sembra scarseggiare quasi del tutto.

"Valutiamo bene l'Erasmus, certo, ma ci piace molto anche sapere se i ragazzi cercano di cavarsela da soli, magari facendo i baristi o i camerieri, possibilmente all'estero, per mantenersi agli studi. Lo riteniamo un ottimo avvio alla "gestione clienti" – dice la Van de Waterma se da noi ciò è quasi prassi (lei è belga ndr) qui no, o almeno non lo si ritiene un requisito importante da inserire nel curriculum, spesso farcito di titoli che non raccontano niente".

Giovani italiani un po’ bamboccioni, quindi poco disposti a compiere qualche sacrificio. "Qualche anno fa ce n'era un po' di più – dice Carlo Berardelli socio delle revisioni alla Deloitte – anche per le retribuzioni: noi ai neoassunti offriamo 22mila euro lordi di partenza, ma investiamo talmente tanto sulla formazione che dopo cinque anni sei sul mercato. Non tutti lo capiscono e non tutti sono disposti a spostarsi, nemmeno fra Roma e Milano".

Anche dal punto di vista della formazione c’è scarsa soddisfazione. Il corso di laurea tradizionale viene definito come più efficace rispetto alle moderne formule universitarie. "Con il 3 più 2 di adesso si è perso in teoria e non si è guadagnato in pratica" è il commento generale.

I giovani, dal canto loro si dicono "disponibilissimi" a spostarsi e a partire da zero. "Sono le aziende che se possono, negli stages, ci usano per fare fotocopie" accusano. Il consiglio, quindi, ai giovani che si accingono ad affacciarsi al mondo del lavoro è quello di “ascoltare” meglio e di più il mercato.

Investire di più e meglio nella loro formazione, cercando di vivere esperienze formative all’estero, ad esempio attraverso l’Erasmus, ma anche voglia di sacrificarsi e sporcarsi le mani. Sono questi gli ingredienti per un efficace ingresso nel mondo del lavoro.