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Lavorare in un call center

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All'interno di un telemarketing possiamo individuare almeno quattro differenti ruoli professionali:
– il responsabile del call center
– il supervisor
– il team leader
– gli operatori

I primi due hanno mansioni strategiche (es. selezione, gestione e formazione del personale, l’organizzazione di staff meeting, l'elaborazione ed analisi di report statistici, l’acquisizione di nuovi clienti, ecc), mentre il team leader e l'operatore telemarketing si occupano degli aspetti più operativi: le telefonate e l'inserimento dei dati e per il team leader anche il coordinamento di tutte le risorse umane.

Tra tutte queste figure quella su cui si discute di più è solitamente è quella degli operatori telefonici, una categoria poco protetta esposta ai rischi di un mercato che fa del contenimento dei costi un forte fattore competitivo. Nel 2006 la CGIL ha condotto un’indagine “Call Centers. Idee per un cambiamento” in sei grandi società di call center genovesi per verificare le condizioni di vita di queste figure professionali. Il quadro emerso presenta molte zone d’ombra. Pur avendo creato negli ultimi anni tanti nuovi posti di lavoro, le condizioni di lavoro restano molto precarie. Sette operatori su dieci (il 66,7%) hanno dichiarato che il proprio lavoro non possa avere evoluzioni positive, mentre nove su dieci ritengono difficile cambiare lavoro, trovandone uno migliore.

La paga mediamente oscilla tra i 5 e i 7 euro l’ora, lasciando insoddisfatto il 40% del campione che si sente continuamente sotto stress, sia nella gestione delle telefonate in entrata (ossessionato dal dover chiudere le chiamate entro pochi minuti) che in uscita (telemarketing). Infine, nelle struttura analizzate il 65,8% è rappresentato da dipendenti, mentre il 30,4% dei lavoratori è a progetto in un età che non è più tanto giovane. Quasi la metà dei lavoratori ha varcato la soglia dei quarant’anni (solo 1 su 5 non è ancora trentenne) e si tratta quasi sempre di donne (il 77,2%), figure che, in proporzione, hanno meno accesso alla stabilizzazione contrattuale.

In Italia, rispetto all’Europa, le cose forse vanno anche un poco peggio. “I call center in outsourcing – racconta Giovanna Altieri, direttore Ires-Cgilsono relativamente più localizzati nel Sud Italia. Grazie ai contributi europei molti imprenditori hanno delocalizzato l’azienda in queste aree dove è molto diffusa l’esternalizzazione. Sono frequenti i casi di poca chiarezza tra intrecci proprietari, ambiguità tra esternalizzazione e internalizzazione di servizi e appalti pubblici.”

Per fortuna l’indagine ha rilevato anche l’esistenza di strutture dal “volto più umano” che investono nella formazione dei loro addetti e offrono agli operatori un minimo di rotazione con attività lontane dalle “cuffiette” che garantisce una migliore vita lavorativa. Le società che fanno ruotare le mansioni in modo programmato, dando un po’ più di autonomia nella gestione delle telefonate e dove gli ambienti sono progettati come call center la qualità del lavoro sale e con essa anche la qualità del servizio erogato.

Di recente in favore della stabilizzazione di molti lavoratori a progetto impegati nei call center sono scesi in campo sindacati e diversi testi normativi (circolare n. 17/06 del ministero del Lavoro e legge Finanziaria per il 2007, la n. 296/06), nonché l’Avviso Comune tra Cgil-Cisl-Uil e Confindustria.

In particolare la circolare n. 17 (nota come “circolare Damiano”) oltre a prevedere una massiccia campagna informativa (fino a dicembre 2006) e di controlli a tappeto ha fornito chiare indicazioni per distinguere quando è corretto ricorrere a forme di lavoro subordinato e quando a forme di lavoro autonomo (contratto a progetto). In sintesi la circolare ha stabilito che ogni attività “inbound” deve essere svolta da personale assunto con contratto subordinato, mentre per quelle “outbound” è legittimo il ricorso risorse inserite nella struttura con contratti a progetto. Questa differenziazione deriva dall’assunto secondo cui le attività inbound possono essere svolte utilizzando tempo e risorse psico-fisiche tipiche del lavoro subordinato e di norma a tempo indeterminato, laddove la presenza contemporanea di precisi indicatori di autonomia, come nel caso dell’outbound, può essere espletata “anche” con lavoro a progetto. Scendendo più in dettaglio la circolare ha precisato che non tutto l’outbound può essere svolto da addetti con contratto a progetto, anzi le uniche attività outbound per cui è consentito il ricorso a questa forma contrattuale sono quelle in cui convivono contestualmente una serie di requisiti:
– definizione preesistente di tutti gli elementi qualificanti la prestazione al momento della stipulazione del contratto;
– esistenza della concreta ed esigibile autodeterminazione del ritmo di lavoro; individuazione, al momento della stipula, della specifica e singola "campagna" la cui durata costituisce il necessario termine esterno di riferimento per il contratto stesso;
– esistenza di postazioni di lavoro attrezzate con appositi dispositivi per l’autodeterminazione del ritmo di lavoro; impossibilità di richiedere lo svolgimento di un'attività diversa da quella specificata nel contratto;
– compenso esplicitamente riferito al risultato enucleato nel progetto;
– gestione della prestazione in maniera autonoma in funzione del risultato ed indipendentemente dal tempo impiegato per l'esecuzione dell'attività

L’ultima finanziaria prevedeva anche altre norme “aggiuntive” finalizzate ad incentivare processi di stabilizzazione. Ecco le principali
– le trasformazioni a tempo indeterminato godranno (art. 1 comma 266) godono di una riduzione sull’imponibile fiscale di 5.000 euro (10.000 se nel Sud Italia), oltre che di altre particolare agevolazioni in caso di assunzioni femminili
– i nuovi contratti a progetto costano di più all’impresa (art. 1 comma 770 e ss.), non solo perché l’aliquota previdenziale è aumentata al 23% e senza che tale aumento possa comportare una riduzione del netto per il prestatore d’opera, ma anche perché i compensi (di fatto è il contrario di quanto prevedeva il dlgs. 276/03 attuativo della legge 30) devono tener conto dei compensi corrisposti per analoghe prestazioni sulla base dei ccnl (ovvero sia, per noi, dovranno tenere conto di quanto previsto per i terzi livelli)
– ogni nuova commessa pubblica (il pubblico è committente di circa il 18% del mercato call center) deve comprendere (art. 1 comma 909 e ss.) il costo del lavoro, così come determinato dai ccnl firmati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative.

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