Una ricerca per conoscere quante aziende italiane operano attualmente in Cina e per capire le motivazioni che spingono un’impresa a spostare parte della catena produttiva al di là dei confini nazionali. A condurla è stato l’Osservatorio Asia in collaborazione con la Camera di commercio italiana in Cina (Ccic) con il contributo della Fondazione Caribo e Cassa di Risparmio di Imola, delle Associazioni Industriali di Treviso, Genova e Bologna, dello Studio Hammons-Rossotto e del Fondo Sinergia con imprenditori.

I risultati hanno lasciato interdetti gli addetti ai lavori: delle circa 600 presenze italiane inizialmente accertate si è giunti a censirne ben 1.202. I numeri emersi hanno consentito di compiere un identikit delle imprese italiane in Cina:
– 445 sono attività produttive, in larga parte ancora concentrate per motivi logistici nelle province della costa orientale del Paese.
– 282 sono joint venture con partner cinesi,

– 63 sono Wfoe (Wholly foreign owned enterprise, capitale estero al 100%),

– 573 sono Uffici di rappresentanza (di cui puri 427) spesso creati in mancanza di un sistema di distribuzione o per il controllo di qualità della produzione in loco.
– 1.085 sono gli investimenti riconducibili a società registrate in Italia, mentre 117 sono riconducibili a società straniere a capitale italiano;

– 429 sono attività produttive di società registrate in Italia e 15 di società straniere a capitale italiano. Anche se il dato può risultare in difetto perché spesso le società di servizi preferiscono ricorrere alla triangolazione di capitali tra diversi Paesi (ad esempio Hong Kong), il che rende ben più arduo il lavoro di individuazione.

754 sono aziende registrate in Italia, 95 sono le imprese straniere facenti capo a capitali italiani.

Dal punto di vista della provenienza, il 47,84% arriva dal Nord-Ovest italiano, contro il 38,68% del Nord-Est e il 12,21% del Centro. In testa tra le regioni vi sono Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Piemonte, mentre del tutto assente risulta il Sud Italia (salvo qualche eccezione, come Natuzzi, a causa della scarsa capacità di gestire processi di delocalizzazione). Nella ripartizione settoriale delle attività produttive prevalgono macchinari e impianti (41,5%) contro il 15,72% del tessile-abbigliamento.

La presenza italiana per ora è concentrata nella ricca ed industrializzata costa orientale cinese – in particolare Shanghai, Guangdong e Jiangsu – anche per motivi di logistica e per la mancanza di grandi gruppi (fatta eccezione per Fiat e Iveco) che possano trainare l'indotto per una penetrazione verso l'Ovest del Paese.

Alla base di questa scelta quasi mai vi è il desiderio di tagliare i costi del lavoro. Produrre in Cina, infatti, non comporta necessariamente la chiusura di impianti in Italia, ma consente alle imprese di essere competitive sul mercato, di ampliare la propria gamma produttiva, di riorganizzare il proprio business. La presenza su questo mercato strategico per la maggior parte degli intervistati, inoltre, risulta fondamentale per la conquista di altri mercati. Tra i problemi più ricorrenti vi è quello dei visti per cinesi (manager o studenti che siano) in ingresso in Italia.