Sono tante le imprese che stanno attraversando momenti difficili. Altre galleggiano sui mercati in attesa di tempi migliori. Altre ancora sono state già definitivamente spazzate via dalla crisi.

L’idea condivisa da molti è che si debbano attendere tempi migliori e sperare che le iniezioni di fiducia e di

risorse economiche stanziate dalle istituzioni nazionali ed internazionali possano contribuire ad accelerare i tempi di fuoriuscita dalla crisi.

Ma cosa ci si deve aspettare nel dopo-crisi? Sembra davvero difficile che la situazione torni come era qualche mese fa e che la crisi venga archiviata come un episodio che non ha lasciato alcuna traccia. E’ più probabile che ci si trovi a fare i conti con un livello di produttività che strutturalmente risulta in eccesso rispetto alla domanda, soprattutto dei mercati più avanzati, spesso i maturi e stagnanti.

Un caso emblematico è rappresentato dal settore automobilistico: già nel 2005 a società di consulenza KPMG aveva segnalato l’esistenza di un numero eccessivo di fabbrichedi auto nel mondo. All’epoca la domanda di automobili cresceva e le aziende hanno investito in nuovi stabilimenti, i moderni senza però riuscire a chiudere i vecchi presenti, ad esempio, in Europa. Si calcola ad esempio che in Europa l’eccesso di capacità produttiva sia pari a 7 milioni di unità (pari al 30% della produzione totale). E questo in concreto significa che solo 2 stabilimenti su 3 hanno ragione di essere funzionanti. Negli Usa l’eccesso di produttività stimato è pari a 6 milioni di auto. E c’è anche in Cina, segno che le problematiche produttive interessano ormai molti paesi nel mondo. Un’analoga situazione si rileva anche nel settore della petrolchimica, e dei servizi, come ad esempio i trasporti aerei.

Nel mercato ci sono troppe aziende che producono troppe merci. Che i consumatori non riescono ad assorbire. In una situazione del genere in genere si verificano contestualmente 3 fenomeni:
– 1. le imprese vedono restringersi i margini
– 2. si avviano delle riorganizzazioni aziendali che portano alla chiusura di taluni stabilimenti, se non alla cessazione dell’impresa stessa
– 3. molti lavoratori perdono il proprio posto di lavoro, indistintamente siano essi operai o manager.

Tendenze che oggi sono ben visibili nel nostro paese e non solo. E che probabilmente proseguiranno ben oltre la fine della crisi. Qualcuno stima per almeno altri 4,5, forse 7 anni. E nel frattempo cosa accadrà? L’esempio americano è forse valso ad insegnare a tutti che è utile indebitarsi meno per l'acquisto di beni di largo consumo. Se lo stile di vita sobrio proseguirà anche dopo la crisi, è facile prevedere che per molte imprese, piccole o grabndi che siano, la via di uscita resta una sola: sperare, o forse intervenire, per far si che paesi ancora non industrializzati, in cui larga parte della popolazione vive in uno stato di grande miseria, possano crescere dal punto di vista economico, diventando nuovi appetibili ,mercati per chi produce beni e servizi.

Sotto la pressione della crisi il problema dello squilibrio tra offerta e domanda nei paesi industrializzati e di eccesso produttivo potrebbe diventare esplosivo, mettendo a rischio molti più posti di lavoro di quelli che oggi si possono stimare come strettamente correlati alla crisi in atto. Posti di lavoro che, se saltassero, potrebbero stravolgere non solo progetti di vita privata ma anche assetti politici ed economici per interi Paesi. Un problema di proporzioni rilevanti che oggi chiede strategie lungimiranti e risposte efficaci ai nostri governanti, a livello nazionale ed internazionale. Una sfida che richiede anche coordinamento e sinergia per ecionomie che risultano sempre più interconnesse tra loro.